(16) Segue: Le prospettive…
Le dichiarazioni dei Governanti si rincorrono, con i media che fanno da cassa di risonanza in un contesto nel quale, almeno io, intravedo confusione, se non proprio grave disinformazione.
Provo, prima per me piuttosto che per quanti hanno ancora la pazienza di seguire queste mie riflessioni, a chiarire la precedente affermazione.
Comincio dalla notizia relativa all’ingresso nel capitale di Pirelli del colosso della chimica cinese Chem China.
L’operazione è stata presentata come la dimostrazione della capacità dell’impresa italiana di attirare investitori stranieri. I commentatori, al riguardo, si sono affannati a dimostrare il mantenimento dell’«italianità», garantito, tra l’altro, dal ruolo di comando che resterebbe in capo al dott. Tronchetti fino al 2021.
A me l’operazione sembra l’ennesima acquisizione di un’impresa italiana con una tradizione e dei fondamentali, come è avvenuto e seguita ad avvenire per altre realtà di successo, anche medie e piccole, che l’«imprenditore» preferisce cedere monetizzando il marchio e quanto lo stesso esprime.
Ho già scritto, in epoca non sospetta, che l’Italia appare come una colonia da spolpare, e qualcuno ha condiviso questo pensiero, il quale è, però, negato da chi dovrebbe governare la politica industriale e, più in generale, la politica economica del Paese, nonché dagli «economisti» a lui vicino.
Qualcuno ha scritto, infatti, che l’operazione, per i suoi contenuti, fa della Pirelli un predatore e non una preda.
Sbaglierò, ma i capitali esteri sono strumento per acquisire il comando di imprese italiane virtuose o, comunque, con fondamentali idonei a consentire loro un ruolo importante sul mercato domestico e globale. Il che comporterà inevitabilmente un’utilizzazione della stessa in modo sinergico con gli specifici interessi dell’acquirente, ma questi ultimi possono divergere da quelli auspicati per il recupero dell’economia italiana.
L’occupazione, ad esempio, può essere compromessa, ancorché non immediatamente rispetto all’acquisto, attraverso ristrutturazioni organizzative che, passando dai più alti livelli manageriali, possono, poi, scendere ai quadri ed agli impiegati ed operai.
Altri aspetti dei contrasti informativi, se così vogliamo chiamarli, emergono in ordine al DEF, da me già stigmatizzato, in epoca assolutamente non sospetta, come un libro dei sogni. Tale giudizio deriva dalla circostanza che il documento traccia linee ma non dà espressioni quantitative in un quadro gestionale-programmatico, lasciando, per così dire, tale incombenza alla legge di stabilità di fine anno.
Orbene, il Documento di Economia e Finanza indica stanziamenti per 76 miliardi nelle infrastrutture; la stampa amplifica l’informazione e dettaglia le opere tra le quali non poteva mancare il «completamento della Salerno Reggio Calabria».
Pensate, che quasi in concomitanza occorre registrare la frana sulla Catania-Palermo, dovuta ad un movimento con un fronte di un chilometro, già evidenziato dagli esperti da più di un anno senza che qualcuno sia intervenuto.
In altri termini, mi trovo a confermare l’impressione che chi Governa scelga senza alcun riferimento alle esigenze del Paese reale.
Così, quando il «Governante» dichiara di aver trovato un tesoretto di 1,6 miliardi di euro e si riserva l’utilizzazione, il mio sconcerto aumenta e diventa paura.
Si, proprio paura per un Paese che sta anche fisicamente sprofondando e nessuno interviene su di un ganglio vitale per “frenare la frana”, e cioè gli investimenti volti a rilanciare l’agricoltura.
È paradossale, al riguardo, che la Francia, membro dell’Unione Europea come l’Italia, disponga l’embargo su prodotti vinicoli ed agrumari provenienti dalla Puglia, quando è scientificamente provato che l’unica pianta danneggiata dalla «mosca» è l’ulivo e non può esserci contatto con piante di diversa natura.
La riflessione possibile è solo una: non contiamo nulla come Paese in Europa, e non solo, malgrado i viaggi, i pranzi, le pacche, le stretti di mano del Presidente del Consiglio e dei suoi Ministri.
Un altro aspetto rilevante dell’informazione finalizzata a dimostrare che i provvedimenti del Governo stanno inanellando successi è collegato al jobs act. Infatti, l’informazione ufficiale è che ci sono un numero elevatissimo di assunzioni, mentre l’analisi delle stesse dice che nei primi tre mesi del 2015 le nuove assunzioni non superano le quindici unità, mentre è vero che è alto il numero delle stabilizzazioni, dai contratti precari a quelli a tempo indeterminato, ma questo non incide sul tasso di disoccupazione, che rimane terribilmente elevato.
In un mio libro edito nel 2010 osavo predire un ordine del sistema economico post-crisi, con un ruolo primario per la Repubblica Popolare Cinese. Sta di fatto che quest’ultima, in concorso con 21 paesi asiatici, ha costruito l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), alla quale ha anche aderito la Gran Bretagna, creando una reazione risentita degli USA. Non so come funzionerà l’esperimento, però il segnale è chiaro, c’è un movimento che rivendica una leadership monetaria ed economica con attori diversi.
La mia domanda è: che fa l’Italia? Rottama all’interno in funzione dell’età, è giusto, soprattutto se i cervelli più giovani liberano effettivamente nuove intelligenze, ma a livello internazionale sembriamo molto legati alla tradizione, non inserendoci in modo adeguato nel possibile nuovo corso. Il problema, a mio sommesso avviso, è sempre lo stesso: chi governa non ha un obiettivo di vasto respiro inserito in un’autentica linea programmatica, rimanendo chiuso nella sua specifica visione delle riforme. Infatti, il primo problema è la riforma elettorale, per carità importante, ma certamente non incidente su quanto serve per portare il Paese fuori dalla recessione, soprattutto se si muta la modalità di candidatura e di acquisizione dei voti, ma i leaders che si propongono sono sempre gli stessi.
Altro tema, già inevitabilmente trattato nelle precedenti riflessioni è la modifica della Costituzione. Qui, lo ripeto, tremo ancor più di paura!
Questo mio sentimento trova conferma in ciò che è stato fatto ed in quanto si intende fare.
Il primo aspetto riguarda l’abolizione delle province, provvedimento sul quale concordo in linea di principio, ma non nelle modalità con cui si è realizzato, in verità in modo apparente piuttosto che reale. Infatti, il principio si basa sulla razionalizzazione degli enti territoriali, in termini economici e di efficienza, ma per realizzare questo occorreva un razionale programma nel quale si dovevano chiarire quali incombenze e risorse sarebbero passate alle regioni e quali ai comuni, rivisitando i contratti che le province avevano stipulato per questo o quel servizio. Invece, è stata partorita una norma di abolizione, che priva della costruzione sottostante ha lasciato praticamente tutto invariato, compresi assessori e presidenti.
Più intrigante è l’abolizione del Senato, o meglio la sua trasformazione in non si sa che cosa, poiché le funzioni dell’ente rinnovato sarebbero svolte da esponenti delle regioni e dei comuni, motivo per il quale se costoro hanno da fare nei loro posti, elettivi per lo più, non possono avere tempo per dedicarsi alle funzioni, diciamo, di neosenatori e, viceversa, se possono dedicarsi ad esse significa che non sono presi dalle incombenze alle quali sono stati chiamati negli enti locali, con la conclusione che si viene a coprire uno spreco.
In definitiva, probabilmente mi ripeto, se non si crede più alla seconda lettura in sede legislativa, per troppe omogeneità delle due Camere, si poteva abolire il Senato senza le alchimie proposte.
Mi domando se quelle indicate e le altre allo studio non rechino alla completa sovversione del testo nato della Costituente repubblicana, recando ad un presidenzialismo che, personalmente, giudico pericoloso per la tenuta democratica del Paese.
Chiedo scusa, mi sono fatto prendere la mano da timori inconsci abbandonandomi a considerazioni che esulano dal mio specifico ambito di studio e di lavoro. Ma anche in questo, come evidenziato al principio, non mi trovo in linea con i giudizi positivi circa l’uscita del Paese dalla recessione. Io seguito a vedere aziende in crisi, i cui piani di risanamento toccano inevitabilmente l’organico, chiedendo aiuto agli ammortizzatori sociali per rendere meno dura la ricerca del ritorno all’equilibrio economico. Ma i predetti ammortizzatori sono un inevitabile gravame per la collettività in quanto lo Stato per finanziarli ha bisogno di mezzi e questi vengono acquisiti attraverso le imposte, le quali non possono certo diminuire mentre è probabile che aumentino.
In tale cotesto, fa, per lo meno a me, effetto il richiamo dell’Europa all’Italia che deve fare le riforme per «ripartire», ma quali riforme, quelle indicate o quelle su burocrazia, giustizia e fisco.
Se sono, come sembrerebbe logico, queste ultime, il monito appare condivisibile, ma, paradossalmente, le stesse sono più effetto che causa del malessere economico-sociale.
Il peggioramento della burocrazia è funzione dei provvedimenti clientelari indotti dalla pessima qualità dei politici; la giustizia è un ciclope crescente in funzione della caduta dei valori morali del Paese; il fisco è un groviglio facilitato da una normativa contorta fino all’invenzione dell’«abuso del diritto»!
Io credo che sia assolutamente necessario porre mano alla soluzione dei predetti problemi ed agli altri che coinvolgono valori portanti della società, ma appare prioritario assicurare ai cittadini condizioni di vita soddisfacenti, ma per pervenire a questo obiettivo è necessario, secondo me, guardare con realismo la situazione economica e predisporre finalmente un piano organico per affrontarla in un arco di tempo ragionevole.
Lo so che per fare questo occorrono flussi finanziari, ma ripeto il mio convincimento che gli stessi possono provenire dal credito, secondo un piano, come esemplificato nella mia riflessione n. 11 del 25 settembre 2013, che deve essere negoziata con l’Europa senza timori reverenziali.
Al riguardo, ritengo che sarebbe assolutamente giusto togliere il «patto di stabilità» dall’impianto costituzionale, affinché il Governo del Paese possa riappropriarsi delle scelte di politica economica, le quali non debbono essere contrarie agli obiettivi europei, ma neanche subordinati a quelli imposti da alcune oligarchie dell’Unione.
Non dimentichiamo che il debito pubblico italiano è aumentato, pur non essendo finalizzato alle operazioni di investimenti strutturali di vasto respiro e questo è un problema che non si risolve giocando con l’aumento delle imposte/tasse o con tagli alla spesa: il turnaround si consegue solo con un adeguato piano di risanamento, che, evidentemente, non è neanche lontano parente di quanto fin qui proposto e/o realizzato dal Governo in carica e dai due precedenti a partire dalla crisi del 2008.
Nel contesto finanziario europeo, è interessante l’idea del (QE) Quantitative Easing, ma, personalmente, avrei apprezzato di più un’operazione finalizzata a premiare i Paesi capaci di presentare e realizzare piani idonei a farli uscire dalla recessione, rilanciando, in concreto, investimenti, produzione e occupazione.
Non mi meraviglierei, se qualcuno, leggendo quanto scrivo, mi accusasse di essere aprioristicamente fermo nel non riconoscere i progressi realizzati dal nostro Governo in chiave di apprezzamento internazionale. Infatti, il Presidente del Consiglio è andato dal Presidente USA, il quale gli ha detto che è bravo e che l’Italia deve avere la leadership sul caso Libia.
La stampa ha registrato tutto questo come un grande successo internazionale, ma a me, sembra una presa in giro. Non ripeto quanto detto e ridetto sui provvedimenti riformistici del Governo, ma mi soffermo sul caso Libia. Il problema creato, ritengo nella più lodevole delle intenzioni, da Francia ed USA si concretizza in un Paese, spezzato in due e con due Governi, che, per il Mediterraneo, è la porta di uscita dei profughi in fuga dalle guerre del Medio Oriente e Corno d’Africa, sì proprio gli occupanti di quei «barconi» che l’Italia da sola sta soccorrendo come può, dovendo anche contare, purtroppo, un numero crescente di morti in mare.
Non mi voglio intrattenere sull’esegesi delle responsabilità di quelle guerre, che non si spengono malgrado la presenza di forze impegnate per il recupero della democrazia, ma desidero ribadire che il nostro magnifico Paese non conta nulla nello scacchiere politico-economico globale.
Sarò utopista, ma credo che al nostro bel Paese occorra una catarsi, di cui potrebbe essere elemento scatenante quel non partito di maggioranza, ormai assoluta, al quale ho fatto tantissime volte riferimento. Anche questa appare un’utopia, ma potrebbe divenire concretezza se, credendoci, si potessero avere adesioni all’idea, per, poi, contarci e vedere come realizzare lo strumento necessario per proporsi in modo operativo.
Mi piacerebbe sapere, se almeno chi mi legge, condivide o suggerisce altro per uscire dal «pantano».
Claudio Bianchi