Decreto sviluppo: Novità apportate in materia di crisi d’impresa

Il 15 giugno 2012 è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il Decreto Legge n. 83, meglio noto come “Decreto Sviluppo”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 147 del 26 giugno 2012  – Supplemento Ordinario n. 129.

Varie le novità introdotte dal Decreto e tra queste significative modifiche sono state apportate in materia di crisi d’impresa.

 

È bene sottolineare, fin da subito, che le disposizioni del Decreto Sviluppo saranno applicabili ai procedimenti di risanamento aziendale introdotti dopo il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione della Legge di conversione del Decreto in oggetto, che dovrà avvenire necessariamente entro 60 giorni dalla data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto.

Con l’art. 33 del Capo III del Titolo III intitolato “Misure per facilitare la gestione delle crisi aziendali” il legislatore ha voluto “incentivare” le imprese a denunciare il proprio stato di crisi il prima possibile così da attivare una serie di procedure atte al risanamento evitando il fallimento dell’impresa stessa. Si evince da ciò la diversa politica d’azione che si vuole attuare: prevenire ulteriori danni che possano ancor  più nuocere non solo all’impresa in sé ma, più in generale, all’economia nazionale essendo l’impresa un sistema aperto!

Gli strumenti coinvolti nel risanamento nel nostro ordinamento sono essenzialmente tre:

–          piani attestati ex art. 67 L.F.;

–          concordato preventivo ex art. 160 L.F.;

–          accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis L.F.

In relazione al concordato preventivo il Decreto fa uno specifico riferimento al “concordato preventivo con continuità”. In quest’ultimo i creditori devono essere soddisfatti dai flussi di cassa derivanti dell’attività aziendale in going concern e non dalla mera vendita degli assets poichè la vendita è prevista solamente per gli assets non strategici.

In relazione all’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis, invece, il Decreto ha allungato i termini di pagamento dei creditori che non aderiscono al piano. Infatti, il termine di pagamento è stato prolungato fino a 120 giorni dalla data di omologazione dell’accordo, per i crediti già scaduti al momento dell’omologazione ovvero dalla data di scadenza qualora questa sia successiva alla data di omologazione.

Dopo aver presentato domanda di ammissione al concordato preventivo l’impresa ha una scadenza che va da un minimo di 2 mesi ad un massimo di 6 mesi per presentare il business plan ai creditori. Inoltre, l’azienda, se riesce ad ottenere l’accordo del 60% dei suoi creditori, può modificare la procedura in accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis. È bene sottolineare che per accedere alla procedura ex art. 182bis l’impresa oltre ad avere il consenso del 60% dei propri creditori si deve impegnare, comunque, al pagamento integrale dei creditori “estranei” all’accordo.

In questo modo la presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo potrebbe essere utilizzata dall’impresa in crisi come punto di forza che le permetterebbe di ottenere l’accordo di ristrutturazione dei debiti.

Nel merito delle procedure di risanamento il Decreto poteva essere un buon momento per inquadrare con precisione i tre strumenti di risanamento relazionandoli alle diverse esigenze delle aziende in crisi. Questo, però, non è avvenuto… Anzi si è lasciato quasi intendere una certa intercambiabilità tra gli stessi!!!  

Importante è stata, invece, l’introduzione del cosiddetto “Automatic Stay”, già presente in altri ordinamenti, ovvero di una vera e propria protezione per l’imprenditore. Con esso, dal momento del deposito del ricorso alla procedura concorsuale nel Registro delle Imprese, è fatto divieto ai creditori di dare inizio e prosecuzione ad azioni esecutive e cautelari. In questo modo l’impresa può avere a disposizione il tempo necessario per attuare il piano di risanamento senza doversi preoccupare di eventuali attacchi dai cosiddetti “creditori aggressivi”.

Il Decreto, inoltre, dà maggior risalto alla figura del professionista nella situazione di crisi aziendale. Figura che vede accollarsi delle responsabilità e delle “punizioni”, come esposte nel prosieguo, forse un po’  eccessive.

Dalla lettura del novellato comma 1 dell’art. 182 bis L.F. si evince che la nomina del professionista spetti al debitore o, in relazione all’art. 67 comma 3, lettera d), L.F., il professionista deve essere iscritto al registro dei revisori contabili e in possesso dei requisiti per essere nominato curatore fallimentare. In entrambi i casi, tuttavia, dovrà possedere i seguenti requisiti:

–          non può essere legato alla società né a coloro che hanno interesse all’operazione di risanamento, da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l’indipendenza di giudizio;

–          deve possedere i requisiti previsti dall’art. 2399 c.c. per essere nominato sindaco delle società;

–          non deve, neanche per il tramite di soggetti con i quali è unito in associazione professionale, avere prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore ovvero aver partecipato agli organi di amministrazione e di controllo della società.

Il Decreto considera il professionista come il “garante” dei creditori, tanto che nel momento dell’attestazione della veridicità dei dati aziendali non deve solo limitarsi ad evidenziare una mera attendibilità dei dati ma produrre un’analitica relazione di “giudizio”, che dovrà esporre, inoltre, l’effettivo patrimonio aziendale.

Varie sono le caratteristiche che devono emergere dalla relazione del professionista. In particolare dovrà:

–           Attestare la veridicità dei dati aziendali;

–           Verificare la reale attendibilità del piano;

–           Appurare, nel caso di accordo di ristrutturazione, che l’impresa sia in grado di adempiere al pagamento integrale dei creditori estranei all’accordo entro 120 giorni.

In merito al primo punto il professionista dovrà controllare l’esatta rispondenza dei dati contabili con i fatti di gestione, quindi dovrà inizialmente attuare un’operazione di audit andando a verificare, ad esempio:

  • la reale consistenza di crediti e debiti, attraverso adeguate procedure di circolarizzazione,
  • la reale consistenza dei beni aziendali iscritti tra le immobilizzazioni o indicati negli inventari di magazzino,
  • esaminare l’andamento e la consistenza del conto cassa.

In merito alla stima dell’effettiva attuabilità del piano, in ambiente statico questa è un’operazione semplice ma, considerato che l’ambiente aziendale è un ambiente, per definizione, dinamico, questo giudizio è condizionato da vari fattori cosicché non si può che rimandare il tutto al verificarsi di questi. A titolo esemplificativo se il piano prevede la vendita di un assets l’operazione in primis è condizionata dalla stima di un esperto della materia, cosicché il professionista non può che affidare ad un altro soggetto tale attività, in secundis siamo sicuri di trovare nei tempi previsti un acquirente sul mercato?!

Altro esempio, che rafforza il precedente: il portafoglio delle commesse è un segnale di “possibili” ricavi futuri ma l’effettiva realizzazione dei ricavi è, ovviamente, strettamente legata alla struttura organizzativa dell’azienda. Allora come può il professionista esprimere un grado di certezza se non in relazione al verificarsi di alcune condizioni?!

Il giudizio del professionista si basa inevitabilmente sull’attività di due diligence: attività “organizzata” finalizzata alla raccolta e alla verifica delle informazioni di natura patrimoniale, finanziaria, economica, gestionale, strategica, fiscale ed ambientale in modo da ottenere una fotografia analitica della realtà in essere. Senza, però, dimenticare la necessità, che spesso si pone, di eseguire il sensitivity test!

Il lavoro richiesto al professionista, quindi, prevede tempi lunghissimi ed enormi costi in termini di accessi, di struttura, etc.. Ribadiamo che il professionista non deve essere collegato all’azienda e quindi deve avere il tempo per una verifica analitica degli elementi del piano.

Alla luce di quanto esposto non è richiesto al professionista di giudicare solo la ragionevolezza, ma qualcosa di più!!!

È stato modificato, così, l’oggetto dell’attestazione del professionista: non più la ragionevolezza del piano, ma “la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità” dello stesso.

Infine, qualora il professionista dovesse riportare informazioni false o omettere informazioni rilevanti risponderà per il reato di “falso in attestazioni e relazioni”, ex art. 236 bis L.F.. La pena prevista è la reclusione da 2 a 5 anni e una multa da € 50.000 a € 100.000, con ulteriori pene per circostanti aggravanti. La pena aumenta nel caso in cui dal fatto si ricava un ingiusto profitto per sé o per gli altri e nel caso in cui dal fatto consegua un danno per i creditori.

L’attribuzione di tali responsabilità potrebbe nascere dal fatto che il professionista è nominato dal debitore. Si vuole, così, evitare che l’azienda e il professionista, da questa nominato, pongano in essere atti volti a danneggiare i creditori.

Alla luce di quanto precede emerge una contraddizione nella logica del Legislatore: in un primo momento emerge la volontà di essere incisivi e soprattutto tempestivi per “combattere” lo stato di crisi, ma poi chiede al professionista attestatore un giudizio che richiede analiticità e lunghi tempi di sviluppo minacciandolo, anche, con sanzioni penali.  

Alcune criticità possono, a tal proposito, sorgere in merito all’attività del professionista che dovrà svolgere le proprie funzioni in un tempo sicuramente ridotto visto lo stato in cui versa l’azienda e nello stesso tempo deve rispondere del proprio giudizio con analiticità ed esaustività viste le sanzioni a cui è soggetto…..non sarà eccessivo?!