(10) Segue: Le prospettive…

Ebbene sì, voglio riprendere il filo del mio discorso iniziato, ormai, da più di un anno.

Non mi induce a ciò la constatazione che talune delle mie considerazioni hanno avuto riscontro negli accadimenti, né la conversione che mi capita di cogliere leggendo o ascoltando dichiarazioni di questo o quel «politico» o di qualche esponente dell’informazione resa dai media, bensì la voglia di capire la differenza tra quanto si dichiara di voler fare e quanto sarebbe, a mio modesto parere, necessario fare.

 

 

Lo so appaio presuntuoso e forse lo sono, se vengono chiamate schiere di saggi per dare lumi sulla riforma costituzionale, piuttosto che su altri aspetti di primaria importanza per la rinascita del Paese.

Le iniziative del «Governo delle larghe intese» sforna disegni e provvedimenti suggestivi anche nel nome «Il decreto del fare» !

I contenuti, convengo, non appaiono del tutto fuori linea, poiché lo sbocco dei cantieri per le opere infrastrutturali è un auspicio che ho sempre espresso.

Quello che non mi convince, certamente per miei limiti, sono gli obiettivi programmatici.

Infatti, torno a ripetere come un vecchio disco a 78 giri rotto, che occorre darsi degli obiettivi di medio e lungo termine, individuare i percorsi, programmare i costi, le fonti di finanziamento e valutare i ritorni.

È facile obiettare che non so leggere, perché gli obiettivi sono insistentemente ripetuti dall’Esecutivo.

Ma la mia interpretazione degli stessi è diversa. Infatti, l’obiettivo dell’occupazione è conseguibile, secondo il Governo e chi lo sostiene, attraverso agevolazioni fiscali e contributive a favore di chi assume o consolida le assunzioni e, cioè, anche a favore di imprese che soffrono la recessione perché obsolete o asfittiche nel proprio potenziale patrimoniale, finanziario e culturale.

Io penso che “l’obiettivo lavoro” si consegua con un piano che miri ad iniziative che creino condizioni occupazionali nuove, in settori dove si è all’avanguardia o si è indietro ed occorre recuperare un “gap” strutturale.

Per far questo, scusatemi se lo ripeto, ci vuole un piano, che, se fatto bene, va imposto all’Europa, i cui maggiorenti si rendono ormai conto che la politica del rigore ha fatto tutto il male che poteva e va superata affidandosi ad un’altra prioritariamente rivolta agli investimenti, i cui finanziamenti possono anche derivare dall’indebitamento se il piano ne garantisce la copertura del costo e del rimborso.

La neutralizzazione di tale indebitamento, rispetto alla parametrizzazione del rapporto indicato come virtuoso tra debito pubblico e PIL, è un pertugio concesso, o quasi, dell’establishment della Comunità Europea, che sembra, così, convertito al finanziamento della crescita con ricorso al credito mirato.

Tale strada viene suggerita autorevolmente anche dal prof. Pellegrino Capaldo, il quale in un’intervista pubblicata sul Corriere della Sera dell’11 luglio 2013 dichiara «secondo me dimezzare il debito pubblico nei prossimi venti anni… è un obiettivo sia pur a fatica realizzabile ma a condizione che si faccia un vero Progetto Paese e da cui i primi 2 o 3 anni di piano si possa sfondare il tetto del 3% di deficit, per finanziare gli investimenti necessari a mettere in moto il processo di crescita».

Mi conforta molto che uno studioso come il prof. Capaldo, al quale va da sempre la mia stima, esprima un concetto così contiguo a quanto da un anno cerco di esprimere in queste pagine.

La ripresa economica, seconda tappa rispetto all’uscita dalla secca della recessione, è possibile solo se crescono investimenti, lavoro, consumo, ma per realizzare ciò occorre finanziare progetti adeguati. Un «vero progetto paese» dice il Capaldo, ma l’espressione, pur rafforzata da quel “vero” è ancora troppo generica.

Occorre un programma con obiettivi specifici e numeri che ne significhino la rotta per conseguirli, la mia provocazione che conclude le considerazioni di gennaio 2013 (n. 7), è, secondo me, sempre valida e le caselle vanno riempite da chi si candida a governare l’uscita dal tunnel recessivo e, poi, la ripresa.

I tempi per queste due tappe non possono essere 2 o 3 anni, sono probabilmente dieci, come quelli che hanno consentito al Paese di risollevarsi dalle rovine della guerra e agganciare il «miracolo economico».

Purtroppo, però, tra quell’epoca e l’attuale ci sono molte differenze e tutte o quasi a nostro svantaggio.

La prima è connessa con la globalizzazione, i cui germi non hanno avuto quel rigoglio che pure potevamo attenderci.

Prendiamo il tanto conclamato made in Italy: era lecito aspettarsi benefici di sviluppo produttivo ed occupazionale, mentre tanti operatori hanno affidato la façon all’estero, a costi più convenienti, mantenendo il solo effetto griffe.

I marchi più noti hanno aperto punti di vendita nelle aree ad economia in crescita, fondando l’effetto marketing sempre sul nome e meno sul luogo di produzione e più di uno, nei settori del lusso piuttosto che alimentari, hanno ceduto le loro imprese, o se si preferisce i pacchetti di controllo delle loro società, a concorrenti stranieri.

È certamente legittimo monetizzare quanto si è creato, ma l’effetto sull’occupazione malgrado le dichiarazioni del momento, ci saranno sempre e saranno inevitabilmente negative.

L’acquirente, infatti, ha la sua metodologia di conduzione nei vari settori della trasformazione delle materie in prodotti, nelle strategie di marketing ed è naturale che sarà quella metodologia ad essere imposta, anche se vorrà dire chiudere centri di produzione piuttosto che punti vendita.

Brutalmente, quanto dichiarato porta a definire il nostro Paese un territorio da spolpare, comprando pezzi pregiati, piuttosto che per investire capitali in questo o in quel settore con prospettive di sviluppo benefiche anche per l’economia locale e nazionale.

È lecito domandarsi se imprese italiane si sono globalizzate con presenze importati all’estero e la risposta è un si e un no. Infatti, come riferito, talune firme del lusso hanno ubicato punti vendita in Cina, piuttosto che in altri Paesi di più recente emersione, ma spesso questo ha migliorato il loro “appeal” nei confronti di concorrenti, ai quali sono state, poi, vendute. In altri settori non è così, per esempio nel cemento, ma l’espansione è servita più a fronteggiare i cali di vendita in Italia, piuttosto che accreditare lo “skill” nazionale all’estero.

Le imprese italiane, peraltro, sono medio-piccole e, quindi, possono avere una vocazione, magari indotta dal bisogno, all’esportazione ma ciò non fa delle stesse operatori globali.

Del resto sono poche le imprese nazionali di grandi dimensioni che fanno ricerca, si espandono ed hanno un target globale, una di queste opera con indiscusso successo nel settore alimentare, ma “una rondine non fa primavera”.

Altre imprese artefici del “miracolo economico italiano” o, comunque, che hanno contribuito all’evoluzione socio-economico del Paese, come l’ENI S.p.A., l’ENEL S.p.A., Finmeccanica S.p.A., di cui è tuttora lo Stato è il soggetto economico, sono in odore di vendita (direi ulteriore poiché quotate).

La prima è certamente definibile impresa globale, sia per l’attività svolta che per le collocazioni operative nel mondo, tutte e tre, malgrado qualche recente problema di governance per l’ultima, esprimono realtà economico-patrimoniali importanti anche per la collocazione dell’Italia tra i paesi industrializzati.

Leggo, però, che la ricerca di mezzi per finanziare, immagino, il “decreto del fare”, induce qualcuno nell’Esecutivo ad immaginare, come accennato, la loro cessione.

Mi permetto di scomodare la “Storia” per ricordare che le cessioni, un tempo battezzate privatizzazioni, hanno prodotto effetti deteriori per lo Stato venditore, con felice compensazione per il privato acquirente.

Nel caso di specie, parliamo anche di un’impresa di pubblica utilità che, proprio per tale natura, potrebbe evidenziare aspetti di estrema delicatezza sociale.

Ad ogni modo, se, come sento dire, l’operazione deve essere equiparata al sacrificio di gioielli di famiglia, ne debbo dedurre che il Paese ha raggiunto il fondo. Francamente, credo che non siano molto distanti da tale obiettivo, ma credo ancora che ci si possa riprendere, solo che si abbia contezza della situazione vera e si programmi il risanamento. Al riguardo, le risorse pregiate vanno tenute o meglio finalizzate al predetto obiettivo, valorizzandole in tale ottica.

Vorrei concludere questa «sessione di mie considerazioni» con un’osservazione ed un appello.

La prima, riguarda la precarietà dell’attuale Governo delle «grandi intese», il quale, deve porre, ad imitazione del precedente, la fiducia per l’approvazione del ricordato «decreto del fare»!

Se ho ragione, questa volta si dovrà tornare alle urne, perché non credo si possa far uscire dal cilindro un altro salvatore della Patria.

Vengo, così, all’appello: se esiste il “non partito di maggioranza relativa”, ed i recenti responsi delle urne anche in sede amministrativa lo confermano, è venuto il momento di proporsi.

L’appello è rivolto essenzialmente ai giovani, quelli cioè che, indipendentemente dal fatto che abbiano 20 o 50 anni, respingono l’ideologia del potere-politica-denaro, che ho sempre stigmatizzato in questo come in ben più adeguate sedi.

Occorre, però, proporsi con un programma fatto di concretezza numerica, quella che io trovo necessaria per completare la tabella esposta a conclusione della riflessione di gennaio 2013 e anche in questa sede richiamata.

Si tratta di provare a dimostrare che le buone idee possono avere più peso dei soldi, che certamente non ha l’invocato “non partito…”.

 

Claudio Bianchi