(21) Segue: Le prospettive…

La scorsa settimana il 51% degli inglesi si sono espressi a favore dell’uscita del “Regno” dall’Unione Europea.

Non nego che, personalmente, sono stato sorpreso da tale risultato, poiché ho sempre avuto stima dell’intelligente pragmatismo inglese e, quindi, ero sicuro che prevalesse la valutazione di convenienza a permanere nell’Unione essendo però fuori dall’Euro.

 

Invece non è stato così. Non sono in grado di fare un’esegesi del voto inglese, ma se quanto leggo ha un senso il «brexit» sarebbe il risultato di un miscuglio tra tentazioni autonomiste di alcune componenti del Regno e, soprattutto, del voto delle classi meno evolute, culturalmente ed economicamente, le quali vedono un pericolo occupazionale nel numero crescente di europei che approdano sull’isola. Non so se questa interpretazione sia corretta, ma il pensiero di tanti italiani con contratti di lavoro prestigiosi ma inevitabilmente a termine, come accade per i ricercatori, non considerati più membri della U.E. ma stranieri, francamente mi preoccupa da tanti punti di vista.

Ampliando gli orizzonti, vedo il rischio di un “effetto domino”, con euroscettici come gli olandesi ed i norvegesi invogliati a seguire l’esempio anglosassone.

Non vorrei assistere ad un nastro che si riavvolge facendoci precipitare nell’Europa delle Nazioni dell’altro secolo, che menti illuminanti come il nostro Altiero Spinelli hanno cercato di superare con l’idea degli Stati Uniti di Europa.

Questi non si sono realizzati, ma l’Unione aveva un senso con i suoi costituenti, ai quali si è aggiunta l’Inghilterra, ma fuori quest’ultima abbiamo Germania, Francia, Italia; non voglio trascurare la Spagna, ma non do peso, in questo frangente, alle entrate più recenti. Ne consegue una Unione inevitabilmente dominata dalla Germania con uno scarso contrappeso da parte di Francia, Italia, Spagna e “new entry”.

I prossimi giorni, come le settimane ed i mesi vedranno l’effetto perverso di una speculazione che si è organizzata da tempo per l’evento ed indurrà a forti perdite nei listini europei e, forse, non solo, in attesa che le quotazioni non consentano acquisti forieri di grandi guadagni nelle prospettive di recupero dei listini o degli altri obiettivi degli operatori in questione.

Vedremo che faranno i fondi del neo capitalismo orientale, nonché i più modesti “furbetti del quartiere” e, soprattutto, dovremo prendere atto del grado di capacità dei regolatori del mercato e, soprattutto, della Banca Centrale Europea.

In tale contesto è d’uopo riproporre l’interrogativo che ha alimentato le mie più recenti considerazioni: l’attuale Governo è all’altezza di questa nuova complicatissima situazione?

Non voglio rispondere impulsivamente, ma cercando di riflettere. Al riguardo, credo sia corretto partire da una riflessione sulla tornata elettorale per le amministrative che si è conclusa con i ballottaggi domenica 19 giugno.

Sia pure per deformazione professionale, desidero avviare la riflessione prendendo il dato dell’affluenza alle urne. Trascuro ovviamente i casi estremi come Benevento, per considerare che a Roma ha votato il 47% circa degli aventi diritto. La percentuale di astenuti seguita, quindi, ad essere pesante ed alla stessa va sommato il voto volutamente nullo e le schede bianche, dati che, chissà perché, nessuno fornisce.

I commenti che si leggono sono i soliti: ignavi che non esprimono il loro parere magari per poi lagnarsi. Io, quello del partito di maggioranza ormai non più relativa, la penso diversamente: il panorama dei candidati è squallido per carenza di ideali, che mi dicono essere un affare superato, e di programmi autentici, rispetto ai quali c’è poco da dire.

La percentuale che si è recata alle urne ha espresso, salvo rarissime eccezioni, un voto contro o di protesta, di cui ha grandemente beneficiato il movimento cinque stelle.

Per carità è possibile che facciano bene, staremo a vedere, ma il loro successo è senza ombra di dubbio principalmente un voto contro il Governo centrale e la persona che lo incardina.

Trascuro il tema delle divisioni nel cosiddetto centro-destra e l’effetto dei pasticci aggiunti, per approfondire il significato del voto della minoranza degli aventi diritto.

Torno, solo per esemplificare, al caso Roma: il Sindaco, anzi la Sindaco, prende il 51% del 47% dei votanti, è possibile che le percentuali non siano corrette ma vado a memoria e l’ordine di grandezza è comunque centrato. Ne consegue che la prima cittadina rappresenta il 24% degli aventi diritto al voto, ovvero meno di ¼ della popolazione. È questo un aspetto sul quale è opportuno riflettere, poiché la nuova legge elettorale, come osservato in precedenti note, può consegnare la maggioranza del Parlamento ai rappresentanti di una minoranza e questo è un fatto pericolosissimo, almeno a parere mio.

Arriviamo, così, al più generale problema delle riforme, vero “leit motiv”, della politica governativa. Mi sono espresso già tante volte su tale aspetto, in particolare con riferimento alla costituzione, non voglio ripetermi ma puntualizzare che, pur ammessa e non concessa l’opportunità di una revisione della Carta Costituzionale, questa va attentamente ponderata e realizzata non per dimostrare una vocazione riformatrice ma per conseguire un innegabile miglioramento, di cui il pasticcio proposto con il Senato delle Regioni non è nemmeno lontano parente.

Tale convincimento è quello che mi ha indotto a schierarmi per, il “no”, al referendum del prossimo autunno.

In vero, questa posizione ha anche un’altra conseguente ragione, più volte da me dichiarata, quella connessa all’impegno del Premier di lasciare se prevalessero i “no”. Sono convinto che un cambiamento è assolutamente necessario, specie ora che il quadro internazionale è scosso dalla decisione inglese.

Prima di argomentare su quest’ultimo aspetto, voglio riflettere sulle differenze di fondo tra il “no” che propongo e quello emergente da varie forze politiche, attualmente di opposizione, anche se uno occupa posti di comando nelle amministrazioni locali.

Il mio “no” è strumentale per dare voce a quel “non partito di maggioranza”, costituito da chi non si riconosce nei politici attuali, non crede alle autocandidature del web e capisce che il voto, nel contesto attuale, non corrisponde al diritto di vedersi rappresentati da chi si stima. In tale ambito il no, come lo intendo io, corrisponde ad una catarsi, che deve finalmente concretizzarsi con il ritorno alle urne per far emergere, dai 60 milioni di elettori, quel candidato disposto a caricarsi il peso della ricostruzione morale ed economica del Paese.

Il brexit inglese, per quanto osservato al principio di questa nota, comporta che il Paese abbia qualcuno che non si limiti a dichiarare che l’Italia è forte e non ha nulla da temere; storicamente di siffatte persone ne abbiamo avute e le conseguenze seguitiamo ancora a subirle.

Occorre la chiarezza di un obiettivo di ripresa, oggi ancora più difficile, da porre come terminale di un processo programmatico autentico di almeno quindici anni, che va spiegato ai cittadini affinché ne prendano atto facendo ciascuno il proprio dovere o, per dirla cristianamente, portando la propria croce. Questo non ci condurrà al Golgota, ma direttamente alla resurrezione come Paese civile che sa rinascere utilizzando le proprie risorse e le nuove che dalla prima saprà creare.

Non è un caso che la Borsa italiana abbia preso, dopo la vittoria del brexit inglese, una sberla estremamente più forte delle altre borse europee, infatti è la pura dimostrazione che siamo un Paese debole sul quale la speculazione, organizzata da tempo per cogliere l’eventualità brexit, si è subito scatenata, favorendo la corsa alle vendite e, quindi, al ribasso, per cogliere occasioni di lauti guadagni al momento opportuno sulla linea dei ribassi.

Non è neanche casuale il peggioramento immediato dello spread tra i titoli italiani ed i bund tedeschi, altro segnale che la speculazione mondiale ci tiene sotto tiro.

Questi segnali non possono certo essere contraddetti da mere assicurazioni di facciata, ma vanno colti per quello che sono ed il loro substrato affrontato con capacità ed immediatezza. Per questo, a mio sommesso parere, è venuto il momento che il “non partito”, al quale mi richiamo da anni, esprima la linfa di un rinnovamento sul piano dell’ideazione (programma) e dell’agire (realizzazione), evidenziando quel realismo che la vacuità delle attuali forse politiche in gioco non dimostrano di avere.

Sarò grato a chi vorrà farmi conoscere il suo parere, onde verificare se e come sia possibile transitare ad un fare concretamente operativo.

Claudio Bianchi