28.09.2019
La spinta a questa riflessione mi è venuta dal gran parlare del movimento volto a richiamare i “potenti” al non più dilazionabile problema dei mutamenti climatici. Mi ha colpito, in particolare, la determinazione della giovane Greta Thunberg, che si è messa a capo del movimento riempiendo le piazze di giovani che hanno (speriamo!) ritenuto il tema di maggior momento, rispetto al quotidiano insegnamento scolastico.
Mi sono ricordato, al riguardo, che, in passato, mi ero impegnato sul tema dell’evoluzione della produzione e dei connessi rischi ecologici. Così ho fatto una ricerca tra i miei lavori ed ho accertato che nel 1994 scrivevo:
«l’attenzione attuale al problema ecologico, nelle sue diverse manifestazioni, è una dimostrazione della continua evoluzione dei bisogni umani. Tale problema, infatti, nasce dalle modalità con le quali sono stati fronteggiati bisogni precedenti: l’industrializzazione senza il rispetto del territorio; l’agricoltura forzando le condizioni eco-ambientali; la caccia non rispettando le caratteristiche fisiologiche delle specie; la pesca ignorando le condizioni per la riproduzione…».[1]
La mia tesi verteva sui bisogni umani che spingono la produzione, interpretata come mezzo per creare utilità. L’essere umano si evolve e avverte sempre nuovi bisogni, la cui soddisfazione è resa possibile dal progredire dell’attività produttiva, volta proprio, alla soddisfazione degli stessi e, perciò, generatrice di utilità.
Il fenomeno non si è manifestato nel tempo in modo uniforme nelle diverse parti del mondo, acuendo la dicotomia tra aree ricche e aree povere.
Entrambe, per quanto possa apparire singolare, hanno contribuito alla creazione di effetti collaterali negativi per l’ambiente. Ne è prova, da un lato, la cementificazione selvaggia e l’industrializzazione senza remore che accompagna l’opulenza dei primi e, dall’altro, l’accettazione di qualsiasi condizione di sopravvivenza, anche se in danno irreversibile per l’ambiente, da parte dei secondi.
Ne sono esempi di attualità il riscaldamento del pianeta per effetto della liberazione di CO2 da parte dei Paesi più industrializzati o impegnati a crescere per guadagnarsi un posto tra i «Grandi» della Terra, mentre i roghi che stanno distruggendo i bacini verdi del mondo sono il portato della volontà di immaginare, in quei paesi, un modello di sviluppo diverso, di fatto imitativo di quello deteriore già sperimentato nei paesi industrializzati.
Ho ripreso i concetti che precedono per sottolineare il rincorrersi dei bisogni e delle iniziative per soddisfarli, purtroppo, pensando all’immediato e non tenendo conto degli effetti collaterali negativi di soluzioni contingenti anche brillanti per l’obiettivo immediato.
Ciò mi induce a considerare che nel 2019 non si è disposti a rinunciare a quanto di utile l’industrializzazione ha creato, ma, avendo preso atto degli effetti collaterali negativi si invocano rimedi per ovviarne le conseguenze e soluzioni adeguate per le nuove iniziative, diciamo la nuova industria, nonché la nuova agricoltura, e perché no, i nuovi servizi. Si pensi, al riguardo, allo sviluppo del commercio elettronico, che ha rialimentato i trasporti per le consegne rimettendo in pista trasportatori con mezzi spesso inquinanti.
Il problema dell’ambiente è, perciò, estremamente complesso, motivo per cui, a mio modo di vedere, non basta evocarlo con una colorata kermesse di giovani capitanati dalla brillante Greta, perché va cercata una soluzione che non pregiudichi gli standard di vita raggiunti e garantisca nel contempo le migliori condizioni di salute per il futuro.
Questo significa sviscerare il problema richiamando al loro impegno gli operatori economici e, nel contempo, fermare le derive malavitose che sui veleni per l’ambiente fanno o accrescono le loro fortune miliardarie.
Inoltre, con riferimento alla tragedia che si sta consumando in Amazzonia e non solo, occorre che un’autorità sovranazionale possa imporre al Brasile di non distruggere il più grande polmone verde della terra e, se a fronte di tale rinuncia, occorreranno contropartite, a queste potrà provvedere la comunità mondiale, i cui membri debbono dimostrare le proprie disponibilità a tassarsi secondo le proprie disponibilità.
In mancanza di un tale senso di collaborazione mondiale, il pianeta non si salva, ma la complessità del problema va espressa nella sua totalità, mobilitando tutti gli attori che sono in grado e, quindi, hanno l’obbligo di fare qualche cosa.
Vanno bene le manifestazioni dei giovani in piazza, lodevole il nostro Presidente del Consiglio che ha autorizzato il figlio dodicenne allo sciopero per l’ambiente, ma si deve aggredire il problema, imponendo ad industriali, costruttori ed a chi rilascia le autorizzazioni ai primi ed ai secondi il corretto “modus operandi” rispetto agli impatti ambientali attuali e futuri.
È anche il tempo di inventare, e qui le generazioni più giovani sono le più idonee, quanto occorre per fermare-ritardare lo scioglimento dei ghiacciai con tutto ciò che comporta.
L’esempio della kermesse deve essere tradotta in operatività, onde rispondere all’invito sempre attuale di San Giovanni Paolo Secondo: «damoce da fa!».
Claudio Bianchi
[1] Il modello aziendale come modello di economicità, I edizione, Kappa, Roma, 1994.