La tassazione sugli extraprofitti prevede, come già anticipato nel precedente articolo, la corresponsione allo Stato, da parte degli istituti bancari, di una imposta calcolata applicando un’aliquota del 40% all’ammontare del margine di interessi dell’esercizio 2023 che eccede, per almeno il 10%, il medesimo margine dell’esercizio 2021. Per scongiurare l’introduzione di un’imposta draconiana, è stato fissato, inizialmente, per quest’ultima, un tetto massimo pari allo 0,1% del totale dell’attivo patrimoniale.
Il tetto massimo dell’imposta straordinaria, a seguito dell’emendamento di fine settembre, però, è stato elevato dallo 0,1% allo 0,26%, ma su una diversa base imponibile: non più sul totale dell’attivo, bensì sull’importo complessivo dell’esposizione al rischio; escludendo, dunque, il margine d’interesse sui titoli di Stato, i quali, nella classificazione dei bilanci bancari, sono considerati a rischio zero.
La novità più significativa dell’emendamento, tuttavia, concerne la destinazione a riserva non distribuibile di un importo pari a due volte e mezzo l’imposta, come alternativa al pagamento della medesima; comportamento che stanno seguendo tutte le banche, a partire da Unicredit e Intesa. È possibile, quindi, imputare tale riserva “agli elementi del capitale primario di classe 1”, rafforzando il patrimonio delle banche. Se la riserva è utilizzata per la distribuzione di utili, l’imposta viene maggiorata, a decorrere dalla scadenza del termine di versamento (sei mesi dalla chiusura dell’esercizio), “di un importo pari, in ragione d’anno, al tasso di interesse sui depositi presso la Bce” ed “è versata entro trenta giorni dall’approvazione della relativa delibera”.
Infine, è fatto divieto agli istituti di credito di traslare gli oneri derivanti dalla tassa sugli extraprofitti sui costi dei servizi erogati nei confronti di imprese e clienti finali. L’Autorità Antitrust, a questo scopo, “vigila sulla puntuale osservanza della disposizione anche mediante accertamenti a campione, riferendo annualmente al Parlamento con apposita relazione”.
La norma sembra così agevolare sia le banche che i risparmiatori, oltre al nostro Paese, più in generale. Le prime mantengono la loro solidità, nonché credibilità sui mercati, grazie ad una manovra che, di fatto, le ripatrimonializza. I risparmiatori non subiscono le ripercussioni della tassazione agli istituti di credito sotto forma di maggiori oneri bancari; le stesse banche devono controllare i margini di interesse, evitando di erogare credito a costi troppo alti. Il vantaggio per lo Stato, invece, si sostanzia nel mancato pagamento di imposte sui titoli di debito pubblico detenuti dalle banche (quasi 700 miliardi di euro), che consente loro di sottoscriverne di nuovi.
Insomma tutti contenti grazie ad un’imposta i cui presupposti, come sottolineato nel precedente scritto, sono assai dubbi ed i cui effetti sono ancor più originali!