La tassazione degli extraprofitti bancari

La BCE continua a promuovere una politica monetaria restrittiva per contrastare l’aumento dell’inflazione, seguendo una logica tipicamente friedmaniana, per cui “l’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario”.

La politica comunitaria, oggi improntata al rialzo dei tassi di interesse e alla flessione dell’offerta di moneta, punta alla contrazione della domanda aggregata, scoraggiando gli investimenti, la componente più trainante di quest’ultima.

Contenere la domanda aggregata comporta lo stesso contenimento del PIL, il quale è destinato a non crescere. L’unico aspetto “positivo” della politica monetaria restrittiva dovrebbe essere il taglio della crescita dei prezzi, a seguito di un PIL stagnante.

In questo quadro, si inserisce il decreto “Omnibus” del 10 agosto 2023, con il quale il Governo Meloni ha introdotto un’imposta sul margine di interesse delle banche, per fronteggiare l’innalzamento delle rate dei mutui a tasso variabile. Lo scopo è quello di garantire la “giustizia sociale”, finanziando incentivi destinati al rimborso dei mutui per la prima casa e alla riduzione delle imposte per le classi meno abbienti.

L’imposta sugli extraprofitti sarà a carico degli intermediari finanziari, escluse le società di gestione dei fondi comuni d’investimento e le società di intermediazione mobiliare, rispettando il limite dello 0,1% del totale delle attività, quale tetto massimo dell’ammontare dell’imposta addizionale.

Il succitato margine di interesse consiste nella differenza tra interessi attivi bancari, quindi i guadagni rivenienti da mutui e prestiti, e gli interessi passivi, cioè le spese per interessi sui depositi in conto corrente dei clienti. L’aliquota prevista è del 40% sull’incremento superiore al 10% del margine di interesse delle banche italiane del 2023 rispetto al 2021.

Tuttavia, secondo la Presidente della BCE, Christine Legarde «L’imposta straordinaria può rendere più costoso per le banche attrarre nuovo capitale azionario e finanziamento all’ingrosso, in quanto gli investitori nazionali ed esteri potrebbero avere meno interesse a investire in enti creditizi italiani che hanno prospettive più incerte».

L’imposta, più in particolare, graverebbe sull’offerta di credito e non sulla gestione del risparmio, area più profittevole per le principali banche. Inoltre, la combinazione con la remunerazione nulla delle riserve presso la BCE inciderebbe esizialmente sulla disponibilità di credito a favore delle imprese e sulla disponibilità delle banche ad acquistare il debito pubblico italiano, proprio in concomitanza col progressivo arresto del quantitative easing.

Bisogna tener anche conto degli effetti distorsivi sugli istituti di più modeste dimensioni, ove la tassazione degli extraprofitti rischia di causare la diminuzione dei finanziamenti a piccole e medie imprese territoriali.

È per tali ragioni che eminenti economisti caldeggiano un accordo con le banche volto a convertire i tassi dei mutui e prestiti alle famiglie più in difficoltà da variabili a fissi; in alternativa, incoraggiano politiche fiscali espansive a sostegno degli investimenti dell’economia reale, avvalendosi dello strumento della previdenza complementare (fondi pensione).

Ad ogni modo, se la via da seguire è già tracciata, sembrerebbe meno impattante, per le banche e il mercato, una tassazione degli extraprofitti risultanti da tutte le attività consolidate, bancarie e finanziarie, senza toccare direttamente ed esclusivamente il margine di intermediazione.

Inoltre, sarebbe opportuno verificare se tutte le banche abbiano adottato determinati comportamenti realizzando i cosiddetti extraprofitti e, comunque, bisognerebbe anche capire per quanto tempo gli stessi siano stati realizzati, giacché, normalmente, dopo un primo momento di consistente sbilanciamento, il sistema tende a riequilibrarsi almeno in parte.